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Machiavelli, Niccolò.

Pensatore politico e letterato italiano. Figlio di un giureconsulto fiorentino, compì in casa i suoi studi umanistici, arrivando a una buona conoscenza della lingua latina. Della sua gioventù si hanno poche notizie: il suo esordio nella vita pubblica avvenne nel 1498, poco dopo la condanna a morte del Savonarola, quando ricoprì l'incarico di segretario della seconda cancelleria, istituzione che trattava gli affari interni e la guerra. Da questa mansione gli derivò poi, per antonomasia, l'appellativo di "Segretario fiorentino". Si sposò nel 1501 con Marietta Corsini, dalla quale ebbe quattro figli. Nel frattempo, non ancora trentenne, era entrato nella segreteria dei "Dieci di libertà e balìa", una magistratura elettiva che si occupava degli affari esteri della Repubblica. Nei quattordici anni in cui rimase nella segreteria della Repubblica fiorentina (1498-1512) fu ripetutamente inviato in missione sempre in qualità di uomo di fiducia di Firenze. Fu così mandato a Pisa (1500) a negoziare la fine delle lunghe ostilità con essa, a Roma quando fu eletto al soglio pontificio Giulio II, fu inviato più volte in Francia alla corte di Luigi XII; analogamente si recò presso il duca Valentino (al secolo, Cesare Borgia) e in Tirolo presso l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo (1507). Nei soggiorni presso le corti straniere ebbe modo di conoscere direttamente realtà politiche nuove e diverse e di affinare la sua conoscenza di istituzioni e governi. I suoi primi scritti sono costituiti dalle relazioni su queste missioni. Vanno ricordati: la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Olivierotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503), sulla complessa figura e l'opera di Cesare Borgia; Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati (1503); il Ritratto di cose di Francia (1510) con le osservazioni sui costumi francesi e sulle ragioni che resero possibile l'unificazione politica all'insegna della monarchia; il Rapporto delle cose dell'Allemagna (1508) che rielaborò nel 1512 nel Ritratto delle cose della Magna cogliendo i punti di forza e le debolezze politiche della stirpe teutonica. Non meno importante della sua carriera diplomatica fu la sua attività per dotare Firenze di truppe stanziali, allora più che mai necessarie alla Repubblica che doveva fronteggiare continui pericoli e disordini dello scacchiere italiano. Nel 1506 M. fu eletto cancelliere della milizia, formata dalla fanteria e poi in seguito anche dalla cavalleria. Una data importante per M. e per Firenze fu il 1512, quando la sconfitta dei Francesi determinò il crollo della Repubblica fiorentina e il ristabilirsi in città del dominio mediceo. Con il ritorno della Signoria, tutti i dignitari compromessi con il passato regime furono allontanati dal potere. M., da sempre vicino al gonfaloniere perpetuo Pier Soderini, venne esonerato dal suo ufficio, imprigionato e bandito da Firenze. Gli anni successivi trascorsero tristi, in ritiro nel suo podere, all'Albergaccio presso San Casciano, in Val di Pesa. Qui presero forma i suoi scritti dottrinari, frutto delle esperienze politiche maturate sul campo: Il principe (1513); i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519); i Dialoghi dell'arte della guerra (1519-1520). A questo periodo risale anche il fitto carteggio con l'amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma: si tratta di lettere importantissime per mettere a fuoco M. uomo e teorico politico. Scrisse anche opere di carattere storico, utilissime a capire, completandolo, il pensiero politico di M.: le Istorie fiorentine (1525), pubblicate postume, che trattano a grandi linee le vicende europee dall'età delle invasioni barbariche alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e la Vita di Castruccio Castracani, una biografia romanzata del grande condottiero, con la quale intendeva dare il ritratto del principe perfetto. Scrisse inoltre la novella di Belfagor arcidiavolo, la commedia Mandragola (1518), una riuscitissima beffa erotica considerata un capolavoro letterario; viene a lui attribuita, seppur con qualche incertezza, anche la Clizia, rappresentata solo nel 1525. Di interesse linguistico anche il Dialogo intorno alla nostra lingua (1514) nel quale sostenne la tesi della fiorentinità della lingua letteraria. Sempre di carattere letterario sono: il poemetto L'asino d'oro, un'allegoria desunta da Apuleio; la traduzione dell'Andria di Terenzio; ed infine Capitoli, rime e canti carnascialeschi di valore minore. Col Principe, dedicato a Giuliano de' Medici, fratello di Leone X, intese offrire ai Medici lo strumento per un'affermazione del loro controllo politico su tutta la penisola. Questa posizione favorì un reinserimento di M. nella vita politica attiva della Firenze medicea: gli furono così affidati alcuni nuovi incarichi diplomatici, ma di scarso rilievo. Successivamente fu nominato procuratore alle mura, col compito di predisporre la difesa di Firenze contro l'esercito imperiale. Quando, alla notizia del sacco di Roma, nel 1527, i Medici vennero nuovamente cacciati da Firenze e fu restaurata la Repubblica con Niccolò Capponi gonfaloniere, M., ormai troppo compromesso coi Medici, fu escluso da ogni incarico e morì a un mese di distanza dall'insediamento del nuovo governo. Soltanto alla fine del Settecento i suoi resti furono traslati in Santa Croce. Figura tra le più rappresentative del Rinascimento, M. fu un uomo d'azione e un teorico al contempo che ebbe una concezione moderna della politica intesa come "categoria" a sé. L'importanza di M., nella storia del pensiero in generale e del pensiero politico in particolare è grandissima. Nessuno vide, ai suoi tempi, con altrettanta chiarezza, l'evoluzione politica europea in atto e nessuno si rese conto meglio di lui della fragilità degli equilibri italiani, minati dalla corruzione politica e morale sopravvenuta con la decadenza dei culti tradizionali. Egli adottò, per primo, il metodo della ricerca empirica, fondata esclusivamente sull'osservazione (realtà effettuale), nello studio del fenomeno politico, distaccandosi nettamente da tutta la precettistica politica precedente, elaborata sull'interpretazione e sulla discussione di testi, più che sul terreno degli eventi storici reali. Pertanto, egli può essere considerato il fondatore della scienza politica e uno degli iniziatori del pensiero moderno. In analogia con il corpo umano, egli vide nello Stato un organismo naturale che ha le sue leggi di sviluppo e considerò l'attività politica, volta alla costituzione e alla conservazione dello Stato, come un'attività autonoma, avente propri fini e proprie leggi, e perciò autorizzata anche a valersi di propri mezzi. M. opera una distinzione tra l'attività politica, quale complesso di azioni che l'uomo di Stato compie per acquisire il potere e assicurarne la stabilità, e l'attività morale, intesa come attività dell'uomo per la salvezza della propria anima. Questa distinzione gli attirò, da un lato, l'accusa di immoralismo, dall'altro il riconoscimento di essere stato il primo a porre il problema dell'autonomia della politica nei confronti della morale. Le sue teorie politiche non furono enunciate sistematicamente, ma in forma di annotazioni su situazioni particolari e presentano contraddizioni solo apparenti: se nei Discorsi viene teorizzata la Repubblica come forma più alta di governo dello Stato, nel Principe M. propone il principato come il solo rimedio possibile nei momenti cruciali quando, mancando le virtù civiche che sole possono tenere in vita la repubblica, non resta che affidarsi all'eroe d'eccezione, a quel principe "mezzo uomo e mezza bestia" che governi il più saggiamente possibile. Della bestia il principe dovrebbe avere la parte del leone e quella della volpe, utilizzando al meglio per la sopravvivenza del suo Stato le leggi, la milizia e anche la religione che in M. viene considerata un instrumentum regni privilegiato. Precipua caratteristica del cosiddetto "machiavellismo" è il doppio tipo di comportamento previsto per lo statista-principe, e per il privato cittadino. Come supremo responsabile dello Stato, il reggitore è al di là della morale e non c'è alcun criterio per giudicare i suoi atti, se non l'esito degli espedienti con cui egli amplia e perpetua il potere del suo Stato. M. sanziona apertamente l'uso di qualsiasi mezzo (fino alla crudeltà, all'assassinio), purché usato con intelligenza e discrezione. Egli tuttavia insiste anche sul bisogno di rimedi legali di fronte agli abusi ufficiali, per prevenire la violenza illegale, e predica i pericoli dell'illegalità nei reggitori e la follia delle politiche oppressive. Afferma che il governo è più stabile quando molti vi partecipano e per la scelta dei reggitori le sue preferenze vanno al sistema elettivo anziché ereditario. Difende la libertà generale e la libertà di discussione, affinché in ogni questione si possano ascoltare le due parti prima di prendere una decisione. Strettamente connesso col suo giudizio favorevole sul governo popolare, quando sia possibile, e della monarchia, quando necessaria, è il disprezzo di M. per l'aristocrazia, la nobiltà e le milizie mercenarie. La molteplicità del suo pensiero spiega come egli abbia potuto di volta in volta essere rappresentato come un cinico assoluto, un ardente nazionalista, un convinto democratico, un ricercatore spregiudicato del favore dei despoti. Pur contenendo ognuna di queste affermazioni un fondo di verità, nessuna di esse offre l'immagine completa di un uomo il cui pensiero è il risultato di una vasta serie di osservazioni e di letture di storia politica, e che non ebbe mai la pretesa di creare un sistema generale preconfezionato. Più di ogni altro pensatore politico, egli creò il significato del termine "Stato" nell'uso politico moderno (Firenze 1469-1527).